Il Giorno del Ricordo della Foibe: il duro ricordo di Elvio Jagodnik di Meana

MEANA – Esattamente 16 anni fa, nel 2005, gli italiani furono chiamati per la prima volta a celebrare il Giorno del Ricordo. In memoria dei quasi ventimila italiani torturati, assassinati e gettati nelle foibe. Sono le fenditure carsiche usate come discariche. Azioni compiute dalle milizie della Jugoslavia di Tito alla fine della seconda guerra mondiale. Da allora il Giorno del Ricordo è una solennità civile nazionale italiana, celebrata il 10 febbraio di ogni anno. E’ stata istituita con la legge nel 2004. Vuole “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Perché è stata scelta questa data? Il 10 febbraio 1947 fu firmato il trattato di pace che assegnava l’Istria e buona parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia. L’”amaro calice” per l’Italia alla fine della guerra. Un trattato duro che attribuiva all’Italia la responsabilità di aver intrapreso una guerra di aggressione. Essendo la principale alleata della Germania nazista, e riconosceva anche la cobelligeranza seguita all’armistizio dell’8 settembre 1943.

Il monumento in onore delle vittime delle foibe a Basovizza.

Il monumento in onore delle vittime delle foibe a Basovizza

COME SI MORIVA NELLE FOIBE

I primi a finire in foiba nel 1945 furono carabinieri, poliziotti e guardie di finanza. Nonché i pochi militari fascisti della RSI e i collaborazionisti che non erano riusciti a scappare per tempo. In mancanza di questi, si prendevano le mogli, i figli o i genitori. Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra. Ma non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati. Condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni. Tra sofferenze inimmaginabili. Soltanto nella zona triestina, tremila sventurati furono gettati nella foiba di Basovizza e nelle altre foibe del Carso. Nel 2002 l’allora Presidente della Repubblica Ciampi disse che le foibe furono una “pulizia etnica”.

foibe

L’ESODO NELLATESTIMONIANZA DI ELVIO JAGODNIK

Da una parte la tragedia dei tantissimi italiani gettati dalle truppe titine nelle foibe, con l’accusa di essere fascisti. Dall’altra parte, invece, l’esodo degli istriani, fiumani e dalmati dalle terre di origine, da sempre casa loro. E qui si innesta l’intensa e coinvolgente testimonianza di Elvio Jagodnik. Appartenente alla comunità italiana che da Fiume ha dovuto abbandonare tutto ciò che aveva e affrontare un difficile esodo. Racconta. “Io sono un profugo fiumano. Il 1945 segna la mia data di nascita a Fiume ora Rijeka e nel 1947. Quella della fuga con la sorella assieme ai genitori, da quelle terre cedute alla Jugoslavia, all’indomani del trattato di pace. Ed ecco le lunghe e difficoltose peripezie che dovemmo affrontare per l’inserimento nella nuova comunità. Poi la fermata a Trieste per poi proseguire a Venezia ed arrivare al campo profughi di Servigliano nelle Marche. Negli anni ’50, per chiamata al lavoro del papà, il trasferimento con la famiglia a Torino. Nel campo profughi “Casermette” di via Veglia e poi l’assegnazione alle Case Popolari di Lucento“.

LA BIOGRAFIA

Questa è la biografia di Elvio Jagodnik, esule fiumano di Meana. Nel 1971 a Torino sposa Marilena Cotterchio e quattro anni dopo si trasferiscono a Meana, in borgata Rodetti. I coniugi hanno due figli, Enrico e Miriam. Pensionato Fiat, Elvio è socio fondatore dell’associazione pesca sportiva lago Foppa Moncenisio e alfiere dell’Associazione Nazionale Granatieri di Sardegna del Nucleo Val Susa. Specialità dell’Esercito Italiano nella quale ha prestato servizio militare. E’ lui che racconta ai nipoti Yuri e Michela tutte le vicissitudini trascorse con i suoi familiari a Fiume durante il periodo post-bellico e durante l’invasione dei partigiani titini, l’esodo da Fiume e la definitiva sistemazione in Piemonte. La vita da adulto gli regalerà le gioia di fare famiglia ma inesorabilmente il ricordo delle vicende vissute lo accompagnerà fino a sfociare proprio come un “fiume” nel desiderio di raccontare affinché il passato non venga dimenticato e sia chiave di lettura del presente per migliorare il futuro.

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